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Recensione: Domani mi sveglio presto

Titolo: Domani mi sveglio presto
Autore: Davide Simeone
Genere: Narrativa contemporanea
Casa editrice: Les Flâneurs Edizioni
Data di Pubblicazione: 30 settembre 2022
Formato: cartaceo, ebook
Pagine: 246

Roberto ha trentasei anni, un lavoro part-time in una lavanderia a gettoni, e non riesce a riprendere in mano la sua vita da quando Ludovica, la donna che ama più di ogni altra cosa al mondo, è scomparsa in un incidente stradale.

Camilla è un’adolescente esuberante con una famiglia problematica, che cerca il proprio posto nel mondo, Lucia una donna di mezza età che ha deciso di non perdersi d’animo anche se il vuoto lasciato dal suo Vincenzo è incolmabile. E poi ci sono Noemi, Violetta, Fatima, donne che la vita ha messo di fronte al dolore ma che da quel dolore hanno saputo trarre la propria forza.

Frammenti di quotidianità e schegge di ricordi si intrecciano nella composizione di un romanzo corale di perdita e di rinascita, in cui ogni incontro è prezioso e può essere la scintilla capace di rimettere in movimento il cuore di ognuno.

Le persone che incrociamo nella nostra vita non si trovano lì per combinazione… è il caso dei personaggi di questo racconto. L’intreccio di persone che scopriremo in questa narrazione, l’intreccio di cuori, di vite e avvenimenti, rende ogni situazione ancor più intrigante e intensa, poiché scava nel più profondo di ognuno di loro, introducendo nuovi incontri. Persone di ogni giorno, con i loro bagagli pieni di storie e il coraggio di affrontare e sconfiggere le paure, ritrovando la forza di vivere e di amare. Le strade dei personaggi di “Domani mi sveglio presto” di Davide Simeone, s’incrociano, si scontrano, si attraggono, facendoci sognare, soffrire, commuovere, sorridere e anche ridere nell’immaginarci al posto loro.

Non far finta di non aver sentito, Ludo! Domani ti tocca fare almeno un’ora di corsa con il tuo uomo se vuoi la tua margherita con patatine fritte!”. Ludovica si volta appena verso Roberto rivolgendogli una dolce smorfia di resa, un lungo sospiro di impotente rassegnazione. “Okay, amore… magari domani mi sveglio presto”.

La narrazione si svolge in una piccola città del Sud dell’Italia.

La storia d’amore di Roberto, più che una solita storia, viene descritta dall’autore come un’ode all’amore; l’apoteosi, la perfezione che tanti cercano… riuscire a guardare lo stesso orizzonte e vederci entrambi la stessa meta da raggiungere, evocando lo stesso desiderio di casa.

Roberto Grassi ha trentasei anni ed è un infermiere. È sempre disponibile ad aiutare il prossimo e molto empatico. Da quando ha perso la donna che amava in un incidente, però, non riesce più a ritrovare interesse per la vita, che ha preso una piega apatica. Senza di lei, la sua adorata compagna, niente più sembra stimolante, anche se sono trascorsi tre anni. Le sue frequentazioni amorose sono ormai incontri frettolosi senza nessun coinvolgimento emotivo.

Un giorno, Roberto annuncia alla sua migliore amica di aver trovato un nuovo lavoro part-time in una lavanderia a gettoni. Secondo lui è un modo per cambiare vita e anche distrarsi da ricordi e immaginari scenari futuri, espressi sotto forma di ricorrenti lettere d’amore alla sua amata.

Capisci il valore di un abbraccio solo quando scopri di non essere più libero di stringere chi ami” –

Roberto si presenta per un colloquio alla lavanderia Wash. A condurre il colloquio è Lillo, il titolare, un personaggio alla buona, con una dialettica molto informale. Uno scambio di battute all’inizio del racconto mette subito il lettore a proprio agio, potendosi lui facilmente immedesimare nella naturalezza dei dialoghi, che determinano una parte efficace della narrazione perché evidenziano le caratteristiche di ogni personaggio, anche nelle usanze lessicali del posto.

Lillo, in modo molto colorito, riassume i punti fondamentali del lavoro, informando Roberto dei clienti e delle loro stranezze. Si nota subito l’enorme differenza caratteriale, ma anche intellettiva, dei due personaggi e la cosa fa sorridere, oltre a dare vivacità al racconto. Roberto è molto professionale, introverso a differenza di Lillo, che si esprime in modo disinibito, simpaticamente coatto. Lillo raffigura la persona bonacciona, abbastanza trascurato nel vestire e dal linguaggio molto alla buona, spesso troppo prevenuto riguardo l’evoluzione sociale.

“Tieni per te le tue paure, scriveva un tale, ma condividi con gli altri il tuo coraggio”

Davide Simeone mette in evidenza le diverse caratteristiche di ogni personaggio. Il comportamento, il modo di esprimersi… fino ad arrivare ai pregi di ognuno di loro e a ciò che li unisce: la solidarietà, la compassione.

Come nel caso di Camilla, un’adolescente dai capelli rosa al quinto anno di liceo. Come tanti della sua età, sogna ad occhi aperti e sta con le cuffiette nelle orecchie, Ma è anche sensibile a quello che succede intorno a lei e, grazie alla tecnologia, si affascina nel scoprire e approfondire le sue curiosità sulla storia di altri paesi. In particolare, riguardo alla coraggiosa storia di sua madre, fuggita dalla sua terra e costretta a farsi forza dalle violenze del marito. Un’atmosfera familiare difficile; è da sua madre che Camilla eredita la grinta nell’affrontare la vita.

In “Domani mi sveglio presto”Davide Simeone si sofferma su alcuni temi sociali rilevanti che hanno caratterizzato cambiamenti importanti riguardo alle tradizioni e alle credenze delle popolazioni. Il disastro di Chernobyl e i conseguenti danni fisici alle persone, l’eterna lotta nell’Europa orientale, il periodo ancora nitido dell’assurdo isolamento forzato del pianeta terra per l’arrivo di un strano virus e, soprattutto, il gravoso tema della violenza domestica sulle donne.

L’illustrazione dei luoghi e le relative azioni dei personaggi sono presentate in modo eccelso, tanto da superare l’immaginazione del lettore ed esplorare il pensiero di ogni protagonista, proiettandoci nel cuore del racconto.

I personaggi hanno un denominatore comune: forza ed empatia. Nonostante siano molto diversi l’uno dall’altro, nonostante i loro atteggiamenti possano sembrare tamarri o raffinati, essi rappresentano la quotidianità. E, tolta la corazza, in loro alberga un’anima bella, pronta a guarire da dolori, paure e malattie e, perché no, pronta ad innamorarsi. Pagine di vita consueta, ma così ricche di significato e di grande valore umano.

Il linguaggio e lo stile descrittivo cambiano secondo le vicende dei personaggi. Si passa da una forma molto attuale, a volte dialettale con termini divertenti e dialoghi piacevolmente coatti, quasi a voler attenuare ciò che alberga nel profondo animo dei personaggi, a forme poetiche liberate da lettere d’amore. E all’improvviso il tono della trama si fa di nuovo doloroso e profondo, adottando termini eleganti e dando vita ad una sintassi brillante.

Un romanzo straordinario, amorevole, intenso, colmo di umanità. In “Domani mi sveglio presto”, l’autore abbraccia varie personalità di individui, ognuno con la propria storia, le proprie sofferenze e indole. Introversi, espansivi, emotivi, razionali, saggi… senza dimenticare che ognuno di loro riflette noi stessi; storie dove rispecchiarsi, soffermarsi a riflettere e seguire la parola magica dell’autore: solidarietà.

Beatrice Castelli

Béatrice Castelli vive a Torino, cresciuta a Parigi fino all’età di 17 anni, coltiva sin dall’età di otto la passione per la lettura e quella della scrittura.

A dieci anni leggeva Crime et Châtiment  di  Dostoïevski,  preso per caso dalla fornitissima  biblioteca di suo padre, senza sapere ancora nulla di questo scrittore.

A 17 anni, con tutta la famiglia si stabilisce in Italia a Torino, dove dovette imparare l’italiano. Lo studio per la letteratura italiana l’appassiona in fretta, come da piccola per quella francese, iniziai così a scrivere pensieri in entrambe le lingue.

Ha frequento l’interpretariato di Torino con il desiderio di tradurre libri per la sua casa editrice preferita: l’Adelphi. Purtroppo incontra sul suo cammino molte difficoltà per arrivarci e così si ritrova a tradurre testi tecnici per nulla entusiasmanti…

L’amore per la scrittura l’accompagna da sempre.  Non avendo mai nessuno a chi confidare i suoi pensieri, scrive per se stessa. Ha pubblicato, per due case editrici, poesie d’amore in due diverse raccolte, una per Segnidartos l’altra per Rupe Mutevole Ed. e una favola per bambini sempre per Rupe Mutevole. In alcuni siti letterari ha pubblicato inoltre dei racconti brevi.

In questo momento ha un romanzo già ultimato nel cassetto.

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Le ragazze stanno bene. Il romanzo che entra nell’anima.

vivianaguarini

Ho aspettato la fine, l’ultima riga, l’ultima parola prima di decidere se dedicare un articolo all’ultimo romanzo di Davide Simeone: “Le ragazze stanno bene”. Perché durante la sua lettura ho “odiato” l’autore, ho “odiato” Danilo, ho “odiato” Giulia, alcuni dei personaggi le cui vite, con maestria, si intrecciano tra le pagine di questo romanzo.

E al contempo li ho amati. Li ho amati tantissimo, sino a piangere di dolore e di gioia, come quando sbattono in prima pagina la storia della tua vita e tu non puoi far altro che scegliere: restare spettatore o decidere di cambiare direzione.

L’autore è riuscito nelle sue storie, trasudanti di vita e di verità, a mettere nero su bianco le ipocrisie che ci portiamo dentro pur di non affrontare la vita. Pur di non vivere. Pur di non essere felici.

È un libro che si lascia mangiare a piccoli morsi, come a desiderare che…

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Un uomo, il dolore e un’amica che sa ascoltare

Sul Corriere della Sera, all’interno della rubrica IoDonna, una nuova recensione di Domani mi sveglio presto.

Grazie a chi continua a scrivere e a recensire il mio nuovo romanzo!

“Domani mi sveglio presto” di Davide Simeone è il diario silenzioso di un uomo che porta dentro di sé la sofferenza per la perdita della compagna, avvenuta all’improvviso, a causa di un incidente automobilistico.

Qualche volta, uscendo dai bordi di questo piccolo riquadro, penso a quanto sia difficile essere uomini. Uomini semplici, intendo. Parlando qui di noi donne, e molto spesso di quello che non abbiamo, il riflesso condizionato è quello di pensare agli uomini come ai nostri usurpatori.

Ma la nostra vita è costellata di figure maschili positive di cui non si parla abbastanza. E di problematiche maschili che crescono ma non vengono mai affrontate, sopraffatte dalle nostre, che non vengono mai risolte, e così continuiamo a parlarne.

Intanto agli uomini il lamento non è concesso: non possono esprimere i propri disagi senza essere considerati patetici o egoisti. Eppure, ogni tanto, ci farebbe bene ascoltarli, mettendo da parte il nostro (legittimo) risentimento contro il patriarcato e quello strapotere che in realtà appartiene a pochi, sempre gli stessi.

Qualche tempo fa ho letto un bel libro di un giovane autore, Davide Simeone, che mi ha illuminato a riguardo. Domani mi sveglio presto (Les Flaneurs) è il diario silenzioso di un uomo che porta dentro di sé la sofferenza per la perdita della compagna, avvenuta all’improvviso, a causa di un incidente automobilistico.

Roberto si sfoga trascrivendo su carta brandelli di ricordi, riuscendogli difficile trovare chi lo possa comprendere. Fino a quando incrocia, per caso, una giovane e bizzarra adolescente, Camilla. Il nome è quello che avevano scelto con la compagna, se avessero avuto una figlia. Ma non è solo per questa strana coincidenza che i destini di Roberto e Camilla finiscono per intrecciarsi.

In questa davvero insolita e delicata storia di amicizia tra un uomo e una ragazzina (quante ne avete lette?), narrata a fil di penna per evitare fraintendimenti, è la purezza di Camilla il foglio bianco su cui Roberto riuscirà a riversare i propri sentimenti, senza il rischio di ricevere in cambio ascolti distratti, giudizi affrettati, consigli non richiesti.

Sarà inevitabile, per Roberto, scoprire accanto a Camilla che tipo di padre sarebbe stato. E magico sarà infine il modo in cui tutto questo (e molto altro) lo riporterà alla vita e a quel gusto di guardare l’alba, domani, svegliandosi presto.

“Domani mi sveglio presto” di Davide Simeone, un libro che ci racconta come essere padri, senza esserlo ancora diventati

Il libro racconta fin dall’inizio di come la vita di Roberto, ormai alla deriva, in seguito alla perdita del suo unico amore, faccia fatica a ripartire. Tuttavia, in seguito a una serie di incontri fortunati, pare che la situazione di stallo trovi soluzione nelle voci e nelle vite dei tanti personaggi raccontati da Simeone.

Roberto ha trentasei anni, lavora in una lavanderia a gettoni, e non riesce più a ripartire con la sua vita, da quando Ludovica, la donna che amava, è scomparsa in un incidente stradale.

Con Camilla, un’adolescente, che porta il nome della figlia che Roberto avrebbe voluto mettere al mondo con Ludovica, ci troveremo dinanzi alla beltà e alle brutture della giovinezza. Camilla ha i capelli rosa, e non ha paura di mostrarli al mondo. È una giovane donna che scopre il sesso, la rivalsa sugli altri, la gioia di un drink, fino a vedere con i propri occhi come il nido familiare possa trasformarsi in un luogo arcigno. Violetta, sua madre, una donna venuta dalla Bielorussia, è vittima di violenza. La violenza che vive ha su il cappuccio della vergogna, delle scuse dette a mezza voce, della paura di raccontarlo agli altri, e persino di muovere un passo verso la verità e la libertà. Simeone ci parla della violenza sulle donne con uno schiaffo duro e preciso, lasciando vedere al lettore da vicino quanta paura e vergogna viva una donna vittima di tali barbarie.

L’autore sottolinea come il covid19 e i periodi di lockdown abbiano incrementato tali cattivi fenomeni, riducendo le donne che vivevano già in una prigione velata, in una schiavitù acclamata, incapace di risolversi in una fuga. L’autore ci parla del coprifuoco che l’Italia e il mondo si sono trovati ad affrontare, della perdita dei posti di lavoro, della sfilata di bare, del virus che non conoscevamo, e di cui solo il nome faceva battere i denti. Con Violetta indagheremo come una donna possa mentire per bene di sua figlia, di come la violenza possa degenerare di volta in volta, e di come, infine, a piccoli passi, a volte un amore nuovo possa bussare alla porta, trasportando un cuore malandato in una safe zone, dove l’amore non colpisce e non prende a calci, ma cura. La delusione e il male di Violetta può certamente essere distillata da una delle sue frasi: “Era quello che sognavi quando hai lasciato Minsk?”

Roberto e Camilla, instaureranno un rapporto significativo, quasi da padre e figlia. Il loro non sarà però un rapporto fatto di scale e ruoli, entrambi, infatti, si avvicenderanno tra responsabilità e goliardia, in vicende leggere e profonde, capaci di divertire ed incantare. Roberto diverrà una sorta di guida, verso una giovane donna, che nel suo immaginario, avrebbe potuto essere sua figlia. Le loro chiacchierate sono sincere e spavalde, non lasciano spazio all’imbarazzo, al vuoto, ai quesiti persi nel nulla. Racconteranno di sesso occasionale, di progetti per il futuro, di scuola, di amici, di morte, di vita, di violenza, e persino di rivalsa verso una vita che con entrambi è stata poco giusta, per motivi diversi. Roberto si erge a guida verso Camilla, senza mai risultare petulante, è un rapporto fatto di risate e scossoni, di alcolici e bravate, senza mai dimenticare che la vita non si spiega, ma si fa insieme

Una delle frasi più emozionanti che Roberto dice a Camilla, infatti, è senz’altro quella che recita così: “Ama le persone e usa gli oggetti, il contrario non funziona mai”. È un rapporto dove con amore e delicatezza, l’una impara cos’è la vita attraverso l’esperienza del secondo, ritrovando in qualche misura un padre mai avuto, e l’altro, attraverso la leggerezza della prima, ritrova in qualche modo sé stesso, capace ancora di chiudere a doppia mandata per qualche giorno il dolore, affacciandosi sui tramonti e sulle lune più belle. In un rapporto speciale e paterno, dove una famiglia creata con le proprie mani, attraverso l’esigenza di volersi bene, riporta al lettore tutta la tenerezza e la voglia di ritrovarsi braccio a braccio con qualcuno che ci dica verso quale strada svoltare, e che poi venga insieme a noi.

(Miriana Kuntz)

Editore: Les Flâneurs Edizioni

Genere: Narrativa

Pagine: 246

Anno di Pubblicazione: 2022

Il giorno più bello

Qualcuno vi dirà che è stato il giorno più bello della propria vita.

Qualcuno, che ha avuto la gioia e il privilegio di diventare genitore, magari vi dirà che i giorni più belli magari sono due, in ex aequo al primo posto.

Quello che posso dirvi io è che ce l’ho fatta.

Agli occhi e alle orecchie di chi non crede nel matrimonio, o è diversamente sano e non considera questo evento come un traguardo, può sembrare strano affermare una cosa del genere, persino banale.

Ma per me non lo è.

Per noi con la sclerosi multipla come compagna di vita e promessa sposa non desiderata, è tutta un’altra storia.

La notte della diagnosi mi addormentai tra le braccia della donna che sarebbe divenuta mia moglie quasi cinque anni dopo: immaginai una vita normale, ridefinendo i contorni e i confini di un nuovo concetto di normalità che mi apprestavo a imparare già dal giorno seguente.

Cinque anni dopo quella notte sono cambiate tante cose nella mia vita.

Una nuova consapevolezza: di me, dei limiti del mio corpo, dell’importanza delle piccole cose.

Come sono luminosi i giorni di chi ha la sclerosi multipla quando lei decide di tacere.

Come sono serene le notti di chi ha la sclerosi multipla quando lei sceglie di dormire.

Per farla dormire e tacere adesso abbiamo tante strade, alcune passano da terapie sempre più efficaci e sicure, altre da una nostra rinnovata capacità di amarci e prenderci cura di noi.

Mangiare meglio e con qualche rinuncia in più, fare attività anche quando ci sentiamo troppo stanchi, coccolare la nostra mente concedendole il giusto riposto, arrestando quel vortice di pensieri che a volte ci strappa dalla bellezza della vita, silenziando tutte quelle paure di un futuro incerto che però, oggi, non può farci del male.

Un mese prima del matrimonio ho di nuovo contratto il Covid e pochi giorni prima la risonanza magnetica annuale aveva evidenziato una nuova lesione, sebbene molto piccola e spenta.

E così ho vissuto i giorni che precedevano il mio matrimonio con il timore di non essere all’altezza, di non essere abbastanza forte (sarò troppo stanco per una giornata così lunga e impegnativa?), di non essere abbastanza in forma (farà troppo caldo? Il Tecfidera farà i capricci nel mio stomaco?), di non riuscire a vivere il giorno che avevo già iniziato a sognare cinque anni prima tra le braccia di Rosanna.

E invece oggi sono qui a scrivere e a raccontarvi di un giorno meraviglioso.

Un giorno in cui ho scelto che non avevo tempo e voglia per star male o essere preoccupato perché ero troppo impegnato a essere felice con la mia donna e con i miei amici di sempre.

Qualsiasi cosa mi riservi il futuro non potrà mai intaccare la meraviglia di quelle ore spensierate e felici.

Ed è quello che ho deciso di fare nel corso della mia vita con la SM: fare provviste di momenti di gioia, di sorrisi quotidiani, persino di quella sensazione di allerta e inquietudine che precede i controlli, perché mi ricorda l’importanza dei giorni semplici.

Quelli in cui non hai nulla da fare.

Quelli in cui non hai nulla di cui preoccuparti.

Quei giorni in cui sei felici e hai imparato a farci caso!

La vita normale di chiunque altro

Tre anni fa in questo periodo fui dimesso dal Policlinico di Bari.

Ogni volta ho sempre ricordi diversi, perché ognuno di quei giorni fu una prova di pazienza, forza e coraggio con me stesso che in qualche modo mi è servita per diventare quello che sono oggi.

C’era un momento quotidiano di quel ricovero che rappresentava per me il picco d’ansia più difficile da gestire.

Mi svegliavano alle 8 per rifare il letto e mi spedivano nel corridoio, io non facevo che fare avanti e indietro fino a quando i medici e gli specializzandi non iniziavano il giro delle visite.

Mi preparavo sempre con cura perché detestavo l’idea di sentirmi e vedermi malato.

A partire da quel momento tornavo a letto, ma poi l’ansia mi spingeva a tornare nel corridoio.

Guardavo oltre la porta della stanza per capire in quale camera fossero, a cercare di intercettare lo sguardo di qualcuno di loro per ricevere un cenno di conforto.

Li osservavo avvicinarsi alla mia stanza, una truppa di camici bianchi con le loro cartelle cliniche, in quei fogli i miei esami, i miei referti, il mio destino.

Un passo dopo l’altro venivano verso di me, ogni mattina, per richiedere un esame in più, per espormi il quadro clinico, per spiegarmi il significato di quegli anticorpi, di quegli asterischi, di quei puntini nella risonanza.

Quando entravano io ero sempre a letto, da un lato ostentavo sicurezza e tranquillità, dall’altro guardavo altrove e trattenevo il respiro mentre il mio cuore pulsava così forte da sembrare una batteria durante un concerto punk.

Indietreggiavo nel letto, quasi mi accovacciavo mentre loro procedevano verso di me disponendosi in semicerchio.

I medici in prima fila con aria grave, gli specializzandi un passo indietro che sfogliavano con attenzione la mia cartella clinica.

Uno di quei giorni non riuscì più a controllarmi.

Iniziai a fissare uno dei medici, quello che non lesinava mai un sorriso o una parola di incoraggiamento, come se fossi stato ipnotizzato.

Iniziai a piangere, coprendomi il naso e la bocca con le mani, perché provavo vergogna e paura in egual misura.

Lui posò una mano sulla mia spalla dicendo: “Seguirai una terapia e vedrai che avrai una vita normale come chiunque altro.”

Stamattina celebrando questo anniversario mi sono tornate in mente quelle parole, questa benedetta “vita normale come chiunque altro”.

Non so quale sia il concetto di “vita normale”, né come viva “chiunque altro.

In qualche modo credo di aver accettato di dover convivere con tutto: i miei prelievi del sangue, le risonanze magnetiche, qualche infezione occasionale, dermatiti ricorrenti, allergie stagionali: tutto il pacchetto che trascino qua e là per il mondo sfidando ogni giorno me stesso a trovare sempre quel coraggio, quella forza e quella pazienza per essere felice.

A volte inciampo nelle lamentele capricciose di un bambino spaventato, quello che indietreggia in un letto d’ospedale.

Altre volte mi rimetto in piedi a petto in fuori e riprendo a correre a doppia velocità con l’entusiasmo di chi non ha tempo e voglia di fermarsi perché c’è una vita meravigliosa all’orizzonte.

E non so se le vostre vite “siano normali come quelle di chiunque altro”, ma abbiamo solo questa davanti a noi e possiamo solo fare del nostro meglio.

Non è facile, non è per niente facile.

A volte occorre chiedere aiuto.

Altre volte è necessario farsi un pianto.

Spesso camminare da soli è liberatorio.

La musica può salvarti la vita innumerevoli volte e saprete sempre dove trovarla.

Qualcuno può provare a capirti, qualcuno può fingere di capirti, qualcuno può persino riuscire a capirti.

Ma siamo 7 miliardi sul pianeta e tra una pandemia e qualche guerra Dio mi sembra abbastanza occupato per preoccuparsi d’altro.

E quindi non ci resta che andare avanti.

La vita normale di chiunque altro

Il cammino in salita oltre quegli alberi

Vi siete mai trovati nel bel mezzo di un cammino sconosciuto a osservare l’orizzonte senza sapere cosa possa esserci “oltre”…?

Quando il tecnico di laboratorio mi disse che c’era il sospetto di una malattia demielinizzante ricordo che la prima cosa che pensai fu che quelle due parole insieme (malattia, parola che conoscevo molto bene, e demielinizzante, di cui ignoravo il significato ma non suonava bene come “gin tonic” o “ingresso gratuito”) avrebbero stravolto la mia visione del mondo.

Scrissi nella mia mente l’elenco delle cose che facevo e che avrei voluto fare per il resto della mia vita.

Poi di quelle che non avevo mai fatto.

E infine di tutte quelle che forse non sarei mai riuscito a fare con la SM.

Un anziano amico di famiglia, privo di tatto e sensibilità, mi disse candidamente ma con estrema risolutezza: “non potrai più scrivere con la sclerosi multipla”.

Uno dei tanti pregiudizi che mi capita di dover combattere!

Iniziai a compilare una lista di impegni da portare a termine e desideri da realizzare.

Se ci dicono che non potremo più scalare una montagna (ma in montagna non ci siamo mai andati) o svolgere un’escursione in acqua trekking (ma non siamo mai stati su un fiume o un torrente), il danno che può causarci quelle parole è quasi irrilevante: non l’ho mai fatto e non lo farò mai.

Punto.

Perché magari non lo avrei fatto comunque, con o senza la sclerosi multipla.

Ma quando toccano le nostre passioni, i nostri talenti, ciò che ci definisce verso gli altri e arricchisce la nostra vita liberando la mente e lasciandoci viaggiare in una realtà parallela dove possiamo regalare a noi stessi e ai nostri personaggi il lieto fine che in questa vita non hanno mai avuto

Le cose cambiano.

Quando ho ripreso a scrivere non sapevo dove avrei condotto i miei pensieri.

Mi piaceva l’idea che navigassero a vista come faccio io con la sclerosi multipla.

Un giorno alla volta, sul mio cammino, di pietra in pietra cercando di non scivolare con i piedi nell’acqua.

E così ho deciso di regalarmi un viaggio sul Pollino e di chiedere alla mia ragazza di affrontare una piccola escursione che dalla Fontana di Piano Ruggio raggiunge il Belvedere del Malvento, al confine tra la Basilicata e la Calabria, pochi chilometri di sentiero a 1600 metri sul livello del mare.

Un pianoro carsico circondato da verdi pascoli e dai fianchi boscosi dei monti.

Ricordo che quel giorno ero emozionato tanto quanto inquieto.

Alzai lo sguardo e osservai il cielo cupo e nuvoloso, la strada sterrata e sconosciuta che conduceva nel bosco.

Realizzai che quel cammino rappresentava la sintesi di tutte le paure che negli anni avevo portato con me e che la SM aveva bruscamente reso reali durante il ricovero, l’inizio della terapia e tutte le risonanze e visite di controllo.

La paura dell’ignoto, dell’isolamento, della solitudine.

Affrontai l’inizio del percorso ripido temendo di affaticarmi troppo (e il cellulare non riceveva alcun segnale lassù), con l’ansia che le gambe cedessero (ma non volevo rallentare) o che qualche animale lasciasse la sua tana e sbucasse all’improvviso tra i faggi centenari.

E poi, alla fine del percorso, come quando ti lasci andare durante un esercizio di meditazione o ti risvegli la mattina dimenticando che c’è lei, ho visto la terrazza panoramica del Belvedere del Malvento, il punto di arrivo dell’escursione.

Oltre quegli alberi.

E ho fatto gli ultimi trecento metri di quella salita con tutta la forza e il coraggio che troppo a lungo, in passato, ho ignorato di avere.

Ho lasciato che il vento soffiasse sulle mie lacrime di gioia.

Sussurrando a me stesso e ai secolari pini loricati all’orizzonte che ci saranno dei momenti nel nostro cammino in cui dovremo fermarci.

E dire di no.

Ma tanti altri giorni, invece, possiamo provarci.

Forse quel giorno non avrò superato tutti i miei limiti, ma mi basta sapere di aver avuto il coraggio di sfidarli.   

Il cammino in salita oltre quegli alberi

Il tramonto più bello

Poco più di due anni fa, a quest’ora, un’infermiera del Policlinico mi disse che era arrivato il momento della rachicentesi.

Non sapevo ancora che avrei dovuto aspettare cinque tentativi prima che facessero centro e potessero estrarre il liquido cefaloradichiano (è una di quelle parole che impari solo se ti succedono cose brutte) per verificare la presenza di determinati anticorpi che confermassero la diagnosi.

Abbracciavo forte quell’infermiera (vorrei tanto rivederla, prima o poi, solo per riabbracciarla) e tra il terzo e il quarto tentativo scoppiai a piangere perché il dolore era insopportabile.

Mi misero a pancia in giù su una barella, da lì mi portarono a letto e mi dissero che avrei dovuto aspettare almeno 24 ore prima di mettermi seduto o alzarmi.

Avevo solo il pappagallo (fare pipì sdraiati in posizione prona al momento è tra le tre cose più difficili che abbia mai fatto) e i dispostivi elettronici erano rigorosamente spenti.

Durante tutto questo tempo potevo vedere solo il muro davanti a me, un paziente sedato alla mia sinistra, la finestra alla mia destra e svariati aghi e tubicini qua e là.24 ore senza fare assolutamente niente.

Assumendo antidolorifici.

Cercando di dormire.

Ricordando aneddoti del mio passato, vecchi amici persi per strada, ex mai realmente perdonate o egoisticamente ferite negli anni.

Tutto diventa assolutamente piccolo.

E maledettamente inutile.

Ma la cosa più curiosa di tutte è che a un certo punto rialzarsi da lì mi sembrava una roba impossibile da realizzare.

Inoltre, non riuscivo realmente a riposare perché avevo la sensazione di aver lasciato troppe cose in sospeso e non vedevo l’ora di tornare a casa e di rimettermi a scrivere quel romanzo o richiamare quella persona che mi ha sempre voluto bene nonostante fossi spesso troppo distratto per accorgermene.

Volevo scattare in piedi e mettermi a correre e invece me ne stavo lì a fissare una cazzo di parete circondato dai bip dei macchinari.

Un momento del genere non mi era mai capitato in tutta la mia vita e per certi versi sono sicuro che sia stato decisivo.

Forse a volte la vita non ci consente di andare alla velocità che vorremmo.

Forse a volte non abbiamo più pazienza e vorremmo essere altrove.

Credo che al momento questo sia un sentimento condiviso da 7 miliardi di persone.

Ma quando sono uscito da lì (perché, sì, a un certo punto mi sono rialzato, ho preso le mie cose e sono andato via) ho visto il tramonto più bello della mia vita e da allora faccio quel che posso affinché le cose possano andare bene per me e per le persone che amo.

Ed è questa, alla fine, l’unica cosa che conta.

L’altalena a colori

Il bianco è un colore che abbiamo iniziato a conoscere e Francesca Mannocchi ci ha insegnato le sue diverse sfumature colorando i nostri giorni di coraggio e speranza.

E di coraggio e speranza, chi convive con la sclerosi multipla, ne ha bisogno ogni giorno più del precedente.

La SM ci ha costretto a riconoscere anche il grigio, ad adattarci a vivere su un’altalena di emozioni spesso contrastanti tra loro anelando a una sospirata stabilità perduta.

A volte ci spinge un po’ più in là e la paura sembra sopraffarci.

Altre volte, siamo bravi da oscillare in direzione opposta e non lasciarle spazio.

Quando penso a cosa ho perso spesso nomino la spensieratezza.

La prevedibilità.

La banale confortante prevedibilità che la nostra vita precedente, così maledettamente ordinaria, concepiva come l’unica strategia per rimanere a galla.

Programmare, calendarizzare.

Oggi, domani, la prossima settimana.

C’era un silenzioso conforto in tutto questo, in ciò che altri frettolosamente etichetterebbero come noiosa e monotona routine.

Quando si naviga nel grigio senza una bussola ci si adagia ai due lati di quell’altalena: osservi il mondo con la rinnovata saggezza di chi ha scoperto quanto possa essere incantevole una giornata di pioggia o con la spregiudicata impudenza di chi non ha tempo da perdere.

Noi tutti, come ha urlato dal palco dell’Ariston un’incantevole Antonella Ferrari, abbiamo scelto di essere quelli che siamo.
Siamo i nostri nomi.
Non siamo lei.

Ognuno è fantastico così com’è e segue lo stesso percorso, riscoprendo ogni giorno una nuova consapevolezza di sé e dell’importanza di legami sinceri, costruttivi e improntati al rispetto reciproco.

E sulle nostre altalene a colori ci sono le nostre lacrime, i nostri ricordi, i nostri sogni di perfetti equilibristi.

Io e la mia compagna di viaggio

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5 anni fa.

5 anni e un giorno fa i miei successi mi avrebbero reso superbo e i miei fallimenti mi avrebbero incattivito e inaridito verso gli altri.

5 anni e un giorno fa avrei riso all’idea di fare una lezione di yoga a settimana, di passare altri due pomeriggi in palestra con pazienti con il doppio dei miei anni, di smettere di fumare, di mangiare frutta e verdura tutti i giorni.

E 5 anni dopo ho perso il conto degli aghi, dei prelievi, delle risonanze magnetiche, degli asterischi, degli anticorpi e di tutta quella roba lì che ti ricorda che non sei immortale e che dovresti sforzarti di essere meno stronzo.

5 anni dopo ho perso anche il conto di quanti io ci sarò sempre” e poi chissà dove sono finiti e “puoi contare su di me” e chissà dove sono andati a contare, ma ho perso anche il conto di quante persone fantastiche ho conosciuto in sala d’attesa, in reparto, ai convegni.

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Perché la vita non sta lì a guardarti mentre fai e disfai piani per il tuo futuro, tra lavoro, donne, viaggi, famiglia e tutto il resto.

Se oggi la vita la vivo e non mi lascio vivere, è merito di quel giorno di 5 anni fa.

E di tutti quei giorni in cui sembrava non potessi farcela.

Ma ce l’ho fatta.

Anche se era troppo per me, io ce l’ho fatta.

Voglio scrivere due cose sull’ansia.

Perché in questi ultimi anni l’ho guardata negli occhi tante volte. E anche sulla paura. Quella la vivo già ogni giorno. L’ansia da sclerosi multipla, ora l’ansia da Covid-19.

Starò bene? Avrò il mio farmaco regolarmente? Sono costretto ad annullare la mia risonanza magnetica di controllo annuale. Sono – e siamo, tutti insieme – costretti a vivere nell’incertezza cosmica di quello che sarà. E questo perché un pipistrello in una grotta sperduta in una foresta della Cina ha portato un virus nuovo e qui sui social, dove ormai ci ritroveremo ogni giorno, c’è gente che per settimane diceva di aver capito tutto.

Poveri fessi, noi. Loro, da subito, avevano capito già tutto. Poi sono scappati in treno per tornare qui, ma questa è un’altra storia, una storia che devono affrontare con la propria coscienza e il senso di responsabilità. E poi ci sono anche gli altri. Quelli del “c’è la faremo” e i “ce l’ha faremo”.

Contraddicono virologi e luminari di fama internazionale mentre ghignano nei selfie con la mascherina e gli spritz ammassati davanti ai bar e ai locali.

Medici e infermieri della loro stessa età svengono distrutti per la stanchezza dopo ore infinite di lavoro, spesso privi persino di attrezzature sanitarie adeguate per proteggersi. Ma a quanto pare anche loro avevano capito tutto di un virus mai apparso sulla faccia della Terra e sul quale nessuno è in grado di dire nulla di certo fino a quando non ci saranno robusti e affidabili studi clinici pubblicati da autorevoli riviste scientifiche: mettiamoci l’anima in pace.

Quando ero un insopportabile narcisista soffocavo sempre due sentimenti: la tristezza e la paura.Oggi mentre con gli occhi lucidi ascoltavo il discorso di Conte comprendevo che l’ansia e la paura, quasi sempre, ti permettono di scoprire te stesso e di imparare ad amarti così come sei, anche e soprattutto per quello che sei.

Ho paura di tante cose in questo momento, non solo della mia salute in questa pandemia, ma anche di quello che accadrà alla gente sola, alla nostra economia, alla nostra vita. Quando torneremo davvero ad abbracciarci, a ridere, a godere di quelle piccole cose che oggi scopriamo essere dei preziosi privilegi?

Ne usciremo tutti insieme. E tutti insieme saremo delle persone migliori.

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È passato un anno da questo referto.
Ne sono passati almeno duecento, se ogni secondo potesse raccontare la paura di risvegliarsi in un corpo diverso da quello del giorno precedente.
Non è vero che queste esperienze rendono una persona più coraggiosa, più sensibile o più empatica.
Se sei forte, ti rende più forte.
Se sei stronzo, ti rende più stronzo.

E vale lo stesso per quello che tutti stiamo vivendo in queste settimane: magari saremo solo più trasandati, fuori forma e con dei capelli orribili.
Vittime di danni economici incalcolabili.
Vittime di disturbi ossessivi incontrollabili.

Qualcuno si sarà dimenticato il calore di un abbraccio o la passione di un bacio.

Io scrivo.
Io sono sempre stato uno che scrive.
Quando non scrivo leggo per scrivere.
So fare anche qualcos’altro, ma in realtà faccio altro pensando a quando potrò tornare a scrivere.

Chi vive – e convive – ogni giorno con uno stato di allerta cronica, vivendo la propria vita tra due emergenze (e non importa che sia la salute a rischio, il lavoro sospeso, la famiglia che scoppia) sa che può farcela anche stavolta.

Se è arrivato fino a qui ed è ancora in piedi riuscirà a superare anche tutto questo.

E se il domani fosse oggi?

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L’anno scorso mi sono bastati 10 giorni in neurologia per perdere 3 chili, per starmene al buio tutta la notte con il rumore dei macchinari, per condividere il dolore negli occhi complici di perfetti sconosciuti.

Ma mi sono bastati anche 10 giorni per amare ancora di più la vita, per tapparmi la bocca quando non trovo parole umane verso il prossimo e soprattutto per rispettare la silenziosa sofferenza altrui.

Ho l’idea che tutti credano di avere il diritto di dover esprimere un’opinione, persino su questioni serie sulle quali sono totalmente ignoranti.

Fedez ha confessato in TV di avere un alto rischio di sviluppare la sclerosi multipla e lo ha fatto con gli occhi di un uomo, appena divenuto padre, sconvolto e spaventato.
Mi sono rivisto negli occhi di Fedez.
Mi sono rivisto nelle lacrime di Fedez.
Ci siamo rivisti in tanti, perché siamo tanti – più di 120.000 – e la maggior parte di noi ha su per giù l’età di Fedez.
Si fa una risonanza per un sintomo, si scopre che qualcosa non va, si fanno ricerche con le mani tremanti e trattenendo il respiro.
Il futuro all’improvviso sembra dissolversi.

Da quel momento in poi, è accaduto di tutto: da presunti influencer disinformati alla ricerca di like che confondono la SM con la temibile e devastante SLA, generando allarmismi privi di fondamento fino a testate giornalistiche che con copia e incolla improvvisati inondavano il web di questa “terribile catastrofica malattia”.
Poi sono arrivati gli analfabeti funzionali, i padroni della disinformazione online, quelli della serie “così impari a farti i tatuaggi!1!1!1”, “ke vuol dire rischio!1! O c’è l’hai o non ce lai!”, giusto per intenderci, idioti che non sanno ancora dove mettere accenti e apostrofi ma ci vogliono spiegare cosa sia la sclerosi multipla.

Per fortuna è scesa in campo AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla a spiegare in modo dettagliato sul suo sito sintomi, iter diagnostico e decorsi della sclerosi multipla attraverso articoli e video informativi.
La sclerosi multipla NON è la Sla.
Ripeto, a beneficio di politici, amministratori locali e professionisti che ancora pubblicamente non lo hanno capito: la sclerosi multipla NON è la Sla.
La sclerosi multipla NON è contagiosa.
La sclerosi multipla NON è mortale.
La sclerosi multipla comporta varie difficoltà nella vita quotidiana che possono essere gestite e affrontate seguendo una delle tantissime terapie che sono fortunatamente disponibili e con uno stile di vita sano e improntato a una maggiore cura di se stessi.

Mi piace pensare che adesso qualcuno tra i 9 milioni di followers di #Fedez si senta meno solo nell’affrontare una battaglia che durerà per tutta la vita.
Mi piace pensare che adesso qualche conoscente dirà “ah, ma è la stessa malattia di Fedez?” perché forse ne saprà qualcosa in più.
Mi piace pensare che un neodiagnosticato, oggi, oltre ad avere la fortuna di poter ambire a vivere una vita serena e felice allontanando sempre più lo spettro della disabilità, possa essere adeguatamente informato sulla #SM grazie a questa confessione dall’impatto mediatico mostruoso.

Ma per tutti, non solo per chi ha la SM, il messaggio con cui chiude l’intervista Fedez dovrebbe diventare un mantra: “ora scelgo le mie battaglie, perché ho perso tanto tempo in cazzate e in persone sbagliate…”.

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Liberatevi delle zavorre.
Vivete nel presente.
Non aspettate di temere che le cose possano andare male prima di cambiare voi stessi e dare il massimo affinché vadano bene.

Iniziare un percorso psicologico è un atto di coraggio.

È il momento in cui realizzate che le cose non vanno nel verso giusto e con umiltà decidete di intraprendere un viaggio dentro voi stessi perché avete scelto di essere felici.
È un atto di umiltà, perché finalmente iniziate a chiedervi “e io dove ho sbagliato?” piuttosto che elencare sempre gli errori e le responsabilità dell’altro.
È il desiderio di liberarsi di zavorre ingombranti, sensi di colpa nocivi, considerazioni sbagliate su voi stessi e persone negative incapaci di amarvi davvero.

È il momento in cui, in certi casi come il mio, smettete di riempire le vostre case e i vostri uffici di oggetti e vestiti che non userete mai, smettete di rimuginare sul vostro passato, smettete di mostrarvi per quello che gli altri si aspettano e decidete di essere così come siete.
E non importa più quello che gli altri dicono o pensano di voi, perché l’unico giudizio che conta è quello che date a voi stessi, vivendo momento per momento, per voi e per gli altri.

È quella consapevolezza che vi fa essere presenti a ogni respiro, anche se ansiosi e spaventati, quella comprensione che vi porta ad accettare che non serve affannarsi per rimuovere quel tic nervoso che vi distrae dalla bellezza del mondo, perché avete imparato a concentrarvi sulla bellezza del mondo nonostante quel tic nervoso.

Di questo 2019 custodisco con cura questo meraviglioso cammino alla scoperta di me stesso…il viaggio più bello della mia vita.

Buon 2020,

un giorno alla volta.

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